8 novembre 2015 - Domenica solennità di Cristo Re
“Dal legno della croce regna il Signore”:
così abbiamo ripetuto più volte in questa liturgia, forse senza dare il giusto
peso a queste parole. Regnare ci ricorda sempre, o immediatamente, qualcosa di
molto diverso che un trono fatto da una croce, perché il trono dei potenti è un
trono ricco, imbottito, prezioso, la croce invece è un posto scomodo. Perché i
re sono rivestiti da abiti importanti, invece Gesù sulla croce è nudo. Perché i
re portano su un capo un diadema, una corona, Gesù invece un intreccio di
spine. Perché i re della terra, quando dicono una parola, è una parola che sa
sempre un po’ di giudizio, invece la parola di Gesù è una parola di perdono.
Oggi
ci è chiesto di scegliere nuovamente di chi vogliamo essere discepoli, quale re
vogliamo seguire e cosa significhi per noi dire che “Gesù è Re”. Il Regno di
Dio infatti è molto diverso da quello degli uomini, già Lui ce l’aveva detto
nel confronto con Pilato: “Se il mio
regno fosse di questo mondo non credi tu, forse, che il Padre mio avrebbe
mandato una legione di angelo a liberarlo?”.
Questo
Regno che Gesù ci propone e che Lui ha iniziato non ha le nostre regole, come
del resto molto del messaggio di Dio si allontana dalle regole nostre, perché
noi a questo disgraziato condannato a morte non avremmo riservato nessuna
pietà. La morte di croce era per gli infami, per i traditori, per coloro che
sono un pericolo pubblico, una minaccia e “se è finito sulla croce se lo
merita”, come spesso in questo giorni gridiamo contro chi fa il male. Gesù ha uno sguardo diverso sulla vita e su
ciascun uomo. Lui vede sempre oltre. Per lui non siamo mai la somma dei
nostri errori, dei nostri fallimenti, dei nostri buoni propositi mancati, di
quello che avremmo dovuto fare e non abbiamo fatto, di quello che avremmo
voluto fare e abbiamo rimandato. Noi non
siamo mai la somma dei nostri errori: per lui noi siamo sempre una possibilità
di bene e così Gesù vede in quell’uomo, che non ha parole cattive per lui,
quanto gli altri non saprebbero mai vedere perché hanno gli occhi accecati dai
suoi errori. Il ladrone così dice ciò che noi sappiamo ma anche quello che i farisei,
i capi del popolo e i soldati non riuscivano a vedere, neppure l’altro
condannato a morte “Costui non ha fatto
nulla di male”. Somma ingiustizia è la croce, non solo perché è un
supplizio duro e ingiusto, tremendo anche per il più cattivo degli uomini, ma
ingiusto quando colpisce colui che non ha fatto nulla di male. Questo Dio,
uomo, che non ha tenuto nulla per sé, non ha tenuto come tesoro geloso il suo
essere Dio, ma ha scelto di diventare uomo, condividendo con noi il dolore e la
morte, in quel momento non ha gridato tutta la sua rabbia, la sua delusione, la
sua amarezza per trovarsi in quella situazione come fallito, per non essere
stato capace di far intuire il messaggio di Dio, la parola di Dio, il nuovo
Regno da lui introdotto. A questa umanità che lo rifiuta offre l’unica parola
di novità, che fa differente l’esperienza cristiana da qualsiasi altra
appartenenza religiosa, perché la differenza – se vogliamo trovare la
differenza – tra quanto noi crediamo e quello che condividono molti fratelli e
sorelle non sono i comandamenti, i precetti ma è Gesù Cristo che a quell’uomo
sulla croce offre il perdono, anzi di più: offre un abbraccio di pace che è
eternità.
Com’è
diverso il nostro modo di leggere la storia, di guardare agli uomini, di
giudicare situazioni, persone, questo mondo! Come ci riempiamo facilmente la
bocca di parole dure, severe, a volte persino cattive. Noi oggi celebriamo
l’Eucaristia sulla tavola che è la stessa tavola della croce e diciamo di
essere discepoli di un Dio così, diciamo di essere sudditi di un re che ha
queste caratteristiche e se vogliamo che il nostro atto di fede sia autentico,
allora dobbiamo cambiare sguardo e
assumere in noi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, il quale pur
essendo di natura divina non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con
Dio ma spogliò se stesso: oggi scegliamo di chi vogliamo essere discepoli.
Siamo al termine di un anno liturgico, dodici mesi fatti di grazia di Dio,
almeno di quella grazia quotidiana che è l’Eucaristia, almeno settimanale,
sacramento, Parola di Dio, magistero della Chiesa, testimonianza autentica di
uomini e donne nella fede che per amore di Cristo danno la vita. Dodici mesi
fatti di episodi, di eventi, di persone che abbiamo amato e che ci hanno
lasciato, di uomini e donne che abbiamo accompagnato nel cammino di diventare
grandi, di piccoli che abbiamo introdotto alla vita della fede, ai quali
abbiamo permesso per la prima volta di ricevere l’Eucaristia, che abbiamo
confermato con l’olio dello Spirito. Un anno di grazia per cui ringraziare, ma
anche un anno che ci impegna, che rinnova in noi il coraggio di dire “Sì,
voglio essere discepolo del Signore, di questo Signore, l’unico Re del cielo e
della terra, della storia, della mia storia e di quella dell’umanità”. Così, si
conclude un anno e se ne apre un altro che ci racconterà ancora la storia di
Gesù perché la differenza tra questa esperienza che noi viviamo nella fede e
qualsiasi altra esperienza di fede è solo in Gesù Cristo, l’unico nome nel
quale noi possiamo trovare la salvezza.
Che
il Signore ci accompagni in questi giorni ad avere l’umiltà della gratitudine e
a chiedere il dono di un’adesione di fede più autentica, più gioiosa perché il
mondo, a partire da chi ci sta accanto, riconosca anche attraverso la nostra
fragile ma tenace quotidiana testimonianza, che il Signore non si stanca di
amare questa umanità, ferita dal peccato, dal male e dall’ingiustizia perché
Lui, l’unico che non ha fatto nulla di male, ha portato su di sé tutto perché
noi potessimo vivere in novità di vita quella che Lui ci introduce ogni volta
che ci accostiamo con fiducia all’altare dell’Eucaristia che è lo stesso luogo,
la croce, dal quale lui regna.
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