13 dicembre 2015 - V domenica di Avvento
«Io sono il Signore Dio tuo, non
avrai altro Dio all’infuori di me»: conosciamo bene questa parola, è il
primo dei comandamenti. Abbiamo imparato a memoria i comandamenti ma forse
faremmo un po’ fatica a dirne il contenuto.
Cosa significa “non avere un altro
Dio”? Perché Israele ha questa norma come principe di tutte le norme, di tutte
le leggi, di tutte le parole? Israele aveva fatto un’esperienza straordinaria
di Dio, era schiavo in Egitto, il faraone era diventato un nemico,
l’oppressione era diventata pesante e attraverso l’azione di un uomo, Mosè, il
popolo esce dalla schiavitù, vaga nel deserto e arriva alla Terra Promessa. In
questo vagare, però, a un certo punto perde di vista l’essenziale, la memoria
cioè di quello che Dio aveva fatto per lui e mentre Mosè è sul monte e tarda ad
arrivare - anzi, pensano che sia morto -, si costruiscono un vitello d’oro
memoria di quello che avevano visto in Egitto, là dove molte divinità erano
presenti e venivano rappresentate con le forme degli animali. L’idolatria è il
peccato più grave che ci consegna la Scrittura perché dice la volontà di
sostituire Dio con qualcosa d’altro, con qualcun altro. L’idolo è comodo, fatto
su misura, corrisponde ai nostri desideri, è la proiezione di quello che
vogliamo noi nella nostra vita, lo scegliamo noi e lo rivestiamo d’oro,
d’argento (come dice la prima lettura), lo possiamo cambiare. L’idolo è un modo
di spendere la propria vita che ti allontana dall’essenziale. Tutti noi abbiamo
degli idoli, più o meno grandi, più o meno dichiarati. Il pericolo è che idolo
diventi anche la propria appartenenza, anche quella religiosa quando questa ti
porta a pensare che non ci sia spazio per nessun altro se non per quelli che
pensano come te. Questo accade oggi e ci fa paura, ma è sempre un po’ accaduto.
Anche Paolo, nella seconda lettura, ci parla di un vangelo che gli è stato
affidato e che lui ha il coraggio di annunciare senza dissimulazioni, senza
velarlo tanto che dice “chi non lo accoglie lo tiene velato ma non dipende da
me. In me è accaduto qualcosa di straordinario, una luce mi ha guidato perché
prima ero cieco”. Eppure Paolo era un uomo stimatissimo, un fariseo doc,
uno che era così attento nell’osservare le leggi che quando la setta dei
cristiani ha iniziato a diffondersi lui è stato incaricato di andare a Damasco
per prendere i cristiani là nascosti e portarli in catene a Gerusalemme. In
nome della sua appartenenza era disposto a uccidere, ma sulla via che lo porta
a Damasco fa l’incontro con quel Gesù che lui perseguita e da quel momento non
è più cieco e non pensa più di dover sottomettere gli altri con la violenza,
userà certo la spada, la spada della Parola di Dio, ma non per ferire ma per
dire con chiarezza quello che in quel momento gli apparteneva di più, il
Vangelo.
Come possiamo evitare di cadere
nell’idolatria? Il Vangelo ci ripresenta la figura
di Giovanni il Battista che insieme a Maria accompagna il corso dell’Avvento.
Giovanni è un uomo straordinario, che ha delle caratteristiche che vogliamo
raccogliere oggi e custodire nel cuore per allentare da noi il pericolo
dell’idolatria.
Giovanni è un uomo contento, vive
una profondissima gioia, non perché abbia tutto
dalla vita, tanto che abbiamo ascoltato che non si vestiva proprio “all’ultima
moda” né mangiava cose particolarmente buone: viveva nel deserto, si vestiva un
po’ in maniera occasionale. Vive però una grandissima gioia e parla del suo
rapporto con Gesù come del rapporto dell’amico dello sposo con lo sposo: quando
accade il matrimonio di un amico chi gli è veramente tale prova una gioia
straordinaria perché è il compimento di un progetto buono e lo condivide con
tutto l’affetto di chi ha condiviso insieme anche esperienze goliardiche, di
avventure o di dialogo e confronto. Giovanni è contento. Contento di non essere
confuso con Gesù, lui sa bene chi è. Questa gioia lo caratterizza fin da quando
era nel grembo di sua madre. In una delle pagine più belle della Scrittura,
nell’incontro tra Maria ed Elisabetta, la cugina Elisabetta dice a Maria
«Appena ho sentito le parole del tuo saluto, il bambino ha sussultato di gioia
nel mio grembo». Giovanni è un uomo che è pieno di gioia perché ha scelto
di essere colui che è voce che nel deserto indica la venuta del Messia. Questa
gioia è così grande da non metterlo in difficoltà di fronte al fatto di essere
messo un po’ da parte. La gioia è un dono da chiedere. Noi cristiani
apparteniamo al Dio che ha vinto la morte, ma tante volte i nostri visi non
sono gioiosi. Certo, non si può vivere una vita senza cogliere i problemi che
ci stanno attorno, senza vedere le fatiche nostre e di chi ci sta attorno, ma
non possiamo rinunciare alla gioia, non possiamo lasciare che qualcuno ci tolga
la speranza, quindi la gioia, anche in questi giorni, nei quali la nostra
comunità è stata attraversata da una grande dolore. Sempre, quando muore un
fratello o una sorella siamo nella sofferenza, soprattutto chi è più vicino, ma
quando salutiamo un giovane papà di tre bambini piccoli tutto ci sembra essere
messo in discussione e subito riscopriamo l’essenziale e ci diciamo che vivere
la gioia significa valorizzare di più quello che abbiamo, essere più lieti
di quello che abbiamo, dire più volte “ti voglio bene”, dare un abbraccio, un
bacio, non rimandare il bene che possiamo fare, non pensare sempre che ci sarà
un’altra occasione perché la vita è così fragile ed è per questo che è
straordinaria, perché noi la possiamo far diventare ricca di bene in ogni
istante con piccole attenzioni. La gioia innanzitutto.
Giovanni è un uomo umile: «Io devo diminuire e lui crescere». Non pretende di essere di
più di quello che è. L’umile non è uno che si tira indietro, che si nasconde,
che ha paura: l’umile è colui che ha una conoscenza di sé così grande da dire
“io posso dare questo, posso offrire questo e ne sono lieto. Non voglio essere
né più grande né più piccolo”. L’umile sa farsi da parte al momento opportuno,
come sa essere accanto a un altro per aiutarlo a diventare grande. Persone
umili sono persone straordinarie, un po’ perché ti spiazzano sempre, hanno
sempre una parola buona, non possono parlare male degli altri perché sarebbe come
parlar male di sé. Giovanni è un uomo umile e noi abbiamo bisogno di riscoprire
questo atteggiamento, questa virtù che è madre di tutte le virtù. Dobbiamo
chiederla contro l’orgoglio, la presunzione, l’arroganza, senza lamentarci
sempre di quelli che sono più alti di noi e guardando invece di più alle nostre
relazioni nelle nostre famiglie, nelle nostre comunità. A volte ci attacchiamo
così tanto a dei compiti, a dei servizi…. che fatica lasciarli!
Giovanni è un uomo autentico e così forte nelle sue scelte che è disposto a dare la
vita. Nel Vangelo si dice «che non era ancora stato messo in prigione», da lì a
poco sfiderà il re dicendogli “tu stai sbagliando” e poi morirà per un motivo
banale, per un capriccio. Giovanni è un uomo autentico e ci insegna che la vita
vale per come la spendi. Ci sono alcuni che sono chiamati a darla in un gesto
di violenza quando viene tolta la vita e sono martiri; ma c’è anche un martirio
quotidiano, fatto di tante pazienze che si sommano giorno per giorno, martirio
delle pazienze nel ripetersi quotidiano di gesti d’amore, nel scegliere
quotidianamente di appartenere al Signore, nello scegliere quotidianamente il
bene come nostro modo di essere, lottando contro ogni forma di male.
Chiediamo al Signore, allora, di
liberarci dagl’idoli e di scegliere lui come unico Signore, di fare come Paolo
che scoperto il Vangelo non lo lascia più e diventa suo servo, sapendo che
quella Parola è una parola che libera e che impedisce di imporsi con la
violenza. Chiediamo il dono della gioia, dell’umiltà e dell’autenticità. Io
credo che se qualcuno di questi tratti si disegnerà un po’ di più nel nostro
cuore, allora sarà un buon Natale.
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