14 agosto 2016 - XIII domenica dopo Pentecoste
Il popolo di Israele ha sempre custodito la presenza di Dio. Prima in una tenda (non una tenda qualsiasi) che veniva arricchita di tanti elementi per indicarne la preziosità, la bellezza, la particolare dignità che aveva il custodire la memoria di Dio, poi Salomone costruì il grande tempo di Gerusalemme, una tra le più grandi opere dell’antichità. Questo tempio venne distrutto da Nabucodonosor nel 586, poi venne ricostruito in una forma ridotta, più modesta proprio da Neemia nel 520. Erode lo ampliò e quello che Gesù vide era proprio questo tempio reso grande dalla mania di grandezza di Erode. Questo è il luogo dove Gesù rimase quando, dodicenne, venne portato a Gerusalemme. È il luogo dove spesso si recava a insegnare, è il luogo dove oggi abbiamo ascoltato desidera che sia come nella sua origine “casa di preghiera”, è il luogo dove Gesù spesso si è ritrovato con i suoi amici. Quando venne arrestato Gesù diceva “ogni giorno ero nel tempio, voi non mi avete arrestato”. Il tempo è anche il luogo dove la prima comunità cristiana si recava in preghiera. Questo è il tempio che nel 70 viene distrutto e mai più ricostruito anche se nel cuore del popolo ebraico c’è ancora il desiderio di poter riproporre questa realtà, oggi impossibilitata dal fatto che la spianata del tempio è luogo di culto anche del mondo musulmano.
Questa breve introduzione ci permette di fare una breve riflessione sul tempio, sulla casa di Dio che è questa Chiesa Parrocchiale, che è la Chiesa stessa di Dio ed è invito a rispettare questo luogo e quello che qui celebriamo.
Ci sono alcuni atteggiamenti che possiamo custodire, molto semplici. Li conosciamo bene ma è buono ricordarceli costantemente, un po’ perché parlano anche della nostra vita.
Innanzitutto, il silenzio che introduce alla preghiera: alla preghiera comunitaria, a quella delle celebrazioni, ma anche il silenzio nel momento finale dopo il saluto perché è vero che è l’assemblea ma possiamo evitare chiacchiere inutili, schiamazzi, per consentire a tutti di mantenere la disponibilità all’ascolto e alla preghiera. Il silenzio che accompagna la preghiera che possiamo fare personalmente quando durante la settimana entriamo in Chiesa, la scelta di trovare del tempo per andare nella Casa di Dio a pregare; è vero che possiamo pregare in ogni luogo, è vero che il Signore ci ha insegnato che si può pregare nel segreto della propria stanza, ma questo luogo è abitato dalla santità di chi ci ha preceduto e noi, con la nostra preghiera, garantiamo l’abbraccio di questa santità a chi verrà dopo di noi. Il silenzio come esperienza dove vivere la preghiera e la preparazione immediata ai gesti della Liturgia.
C’è poi un aspetto su cui tutti possiamo misurarci: alcuni sono più bravi, altri fanno più fatica. È l’aspetto della puntualità, soprattutto alle celebrazioni: essere pronti è un modo per rispettare Dio e i fratelli. L’Eucaristia, la preghiera è tutta importante e in particolare l’ascolto della Parola è decisivo perché noi entriamo in comunione con il Signore nei gesti d’amore che sono il rivivere la sua ultima cena con i suoi amici.
C’è un altro elemento essenziale: l’abito. Nei racconti della mia Nonna, e anche della mia Mamma, in passato nel giorno del Signore, nella festa, si usava l’abito bello, l’abito buono, anche le calzature belle e buone. Era un modo esteriore per dire l’importanza di quel giorno ma anche l’importanza di quel gesto che era l’Eucaristia. È vero che l’abito non è tutto ma fa e dice molto delle persone. Il modo in cui uno si pone rivela di sé. Anche in un tempo come il nostro, fatto di tanta trasgressione, gli abiti hanno ancora la forza di dire qualcosa di sé. Curare l’abito della festa è un modo di dire a Dio “tu sei importante per la mia vita e io lo dico anche in questo gesto, scegliendo per te un abito bello”. In fondo, nella tradizione della Chiesa, si parla spesso del rapporto tra Dio e il suo popolo come un rapporto sponsale; si parla del rapporto tra Cristo e la Chiesa come un rapporto sponsale e noi sappiamo che nel giorno del matrimonio uno si veste bene: anche quello dice l’importanza di ciò che sto facendo.
Infine, un aspetto che spesso viene un po’ equivocato, un po’ visto in maniera non positiva: Neemia chiede ad Artaserse di dargli la possibilità di tornare a Gerusalemme per ricostruire le mura, le porte della città e il luogo della preghiera; chiede un aiuto economico, un sostegno e già la seconda lettura ci parla di quella colletta che i cristiani di Macedonia e della Caia fanno a favore dei poveri di Gerusalemme. In quel tempo la prima comunità cristiana, Gerusalemme, soffriva in modo particolare la persecuzione. Sostenere la propria Chiesa. Sono sempre molto commosso da quelle offerte che non hanno una quantità grande ma hanno il sapore del dono autentico, di quelle persone soprattutto più anziane che mi mettono tra le mani una busta dicendo “è per le attività, le spese della Parrocchia”. Non mi chiedono di avere una sorta di ricevuta di come userò quel denaro: hanno a cuore unicamente il bene della propria comunità e la fiducia nei confronti del pastore della comunità. Quel gesto non è una donazione estemporanea ma spesso è la scelta mensile o periodica di mettere a servizio di tutti il frutto della propria rinuncia. È un gesto di grande importanza che, come dice Gesù, vale più di tutto non tanto perché la quantità è preziosa ma perché la qualità lo è. Sostenere la propria comunità è un gesto d’amore, un gesto prezioso.
Ma poi la Chiesa siamo noi, non è solamente un edificio che per quanto bello sia vale perché c’è qualcuno che lo vive. La Chiesa siamo noi. Noi siamo il Corpo di Cristo, la Chiesa. Gesù ogni volta che ci raduna intorno all’altare ripropone i gesti dell’amore proprio perché noi viviamo come lui, perché la sua parola formi la nostra vita e diventi la nostra parola, perché i gesti del suo amore diventino i gesti del nostro stile di vita, perché noi sempre di più siamo cristiani riconoscibili da come ci comportiamo. Amare la Chiesa è decisivo per la vita. Diceva un padre della Chiesa, San Cipriano: non può avere Dio per Padre chi non ha la Chiesa come Madre. Abbiamo anche un compito, quello di difendere la Chiesa: non si tratta di armarci contro qualcuno ma di conoscerla, di saper dire le ragioni della propria fede. Si tratta di affermare la libertà religiosa per noi e per tutti, si tratta di guardare al martirio certo come un evento straordinario che dice la grandezza di coloro che per amore di Dio sanno rinunciare al bene più prezioso che è la vita, ma dice anche che rimane un crimine, un dolore grande e profondo. Difendere la Chiesa significa saper scegliere di non cadere nella bassezza di discorsi vuoti e pur riconoscendo la fragilità di questa realtà che è fatta di uomini saper leggere in essa sempre quel bene che può davvero portare nel mondo pace, fraternità, famiglia. Così, amare la Chiesa è un bene non sono perché onoriamo Dio ma perché facciamo anche il nostro bene, perché cresciamo anche noi insieme ad essa.
Che il Signore ci aiuti a vivere così questa domenica e la nostra appartenenza al popolo di Dio perché crescendo in questa comunione noi sempre di già diventiamo luminosa presenza della bontà di Dio che si rivela oggi nella sua Chiesa.
C’è poi un aspetto su cui tutti possiamo misurarci: alcuni sono più bravi, altri fanno più fatica. È l’aspetto della puntualità, soprattutto alle celebrazioni: essere pronti è un modo per rispettare Dio e i fratelli. L’Eucaristia, la preghiera è tutta importante e in particolare l’ascolto della Parola è decisivo perché noi entriamo in comunione con il Signore nei gesti d’amore che sono il rivivere la sua ultima cena con i suoi amici.
C’è un altro elemento essenziale: l’abito. Nei racconti della mia Nonna, e anche della mia Mamma, in passato nel giorno del Signore, nella festa, si usava l’abito bello, l’abito buono, anche le calzature belle e buone. Era un modo esteriore per dire l’importanza di quel giorno ma anche l’importanza di quel gesto che era l’Eucaristia. È vero che l’abito non è tutto ma fa e dice molto delle persone. Il modo in cui uno si pone rivela di sé. Anche in un tempo come il nostro, fatto di tanta trasgressione, gli abiti hanno ancora la forza di dire qualcosa di sé. Curare l’abito della festa è un modo di dire a Dio “tu sei importante per la mia vita e io lo dico anche in questo gesto, scegliendo per te un abito bello”. In fondo, nella tradizione della Chiesa, si parla spesso del rapporto tra Dio e il suo popolo come un rapporto sponsale; si parla del rapporto tra Cristo e la Chiesa come un rapporto sponsale e noi sappiamo che nel giorno del matrimonio uno si veste bene: anche quello dice l’importanza di ciò che sto facendo.
Infine, un aspetto che spesso viene un po’ equivocato, un po’ visto in maniera non positiva: Neemia chiede ad Artaserse di dargli la possibilità di tornare a Gerusalemme per ricostruire le mura, le porte della città e il luogo della preghiera; chiede un aiuto economico, un sostegno e già la seconda lettura ci parla di quella colletta che i cristiani di Macedonia e della Caia fanno a favore dei poveri di Gerusalemme. In quel tempo la prima comunità cristiana, Gerusalemme, soffriva in modo particolare la persecuzione. Sostenere la propria Chiesa. Sono sempre molto commosso da quelle offerte che non hanno una quantità grande ma hanno il sapore del dono autentico, di quelle persone soprattutto più anziane che mi mettono tra le mani una busta dicendo “è per le attività, le spese della Parrocchia”. Non mi chiedono di avere una sorta di ricevuta di come userò quel denaro: hanno a cuore unicamente il bene della propria comunità e la fiducia nei confronti del pastore della comunità. Quel gesto non è una donazione estemporanea ma spesso è la scelta mensile o periodica di mettere a servizio di tutti il frutto della propria rinuncia. È un gesto di grande importanza che, come dice Gesù, vale più di tutto non tanto perché la quantità è preziosa ma perché la qualità lo è. Sostenere la propria comunità è un gesto d’amore, un gesto prezioso.
Ma poi la Chiesa siamo noi, non è solamente un edificio che per quanto bello sia vale perché c’è qualcuno che lo vive. La Chiesa siamo noi. Noi siamo il Corpo di Cristo, la Chiesa. Gesù ogni volta che ci raduna intorno all’altare ripropone i gesti dell’amore proprio perché noi viviamo come lui, perché la sua parola formi la nostra vita e diventi la nostra parola, perché i gesti del suo amore diventino i gesti del nostro stile di vita, perché noi sempre di più siamo cristiani riconoscibili da come ci comportiamo. Amare la Chiesa è decisivo per la vita. Diceva un padre della Chiesa, San Cipriano: non può avere Dio per Padre chi non ha la Chiesa come Madre. Abbiamo anche un compito, quello di difendere la Chiesa: non si tratta di armarci contro qualcuno ma di conoscerla, di saper dire le ragioni della propria fede. Si tratta di affermare la libertà religiosa per noi e per tutti, si tratta di guardare al martirio certo come un evento straordinario che dice la grandezza di coloro che per amore di Dio sanno rinunciare al bene più prezioso che è la vita, ma dice anche che rimane un crimine, un dolore grande e profondo. Difendere la Chiesa significa saper scegliere di non cadere nella bassezza di discorsi vuoti e pur riconoscendo la fragilità di questa realtà che è fatta di uomini saper leggere in essa sempre quel bene che può davvero portare nel mondo pace, fraternità, famiglia. Così, amare la Chiesa è un bene non sono perché onoriamo Dio ma perché facciamo anche il nostro bene, perché cresciamo anche noi insieme ad essa.
Che il Signore ci aiuti a vivere così questa domenica e la nostra appartenenza al popolo di Dio perché crescendo in questa comunione noi sempre di già diventiamo luminosa presenza della bontà di Dio che si rivela oggi nella sua Chiesa.
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