30 aprile 2017 - III di Pasqua


«Ecco l’Agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo»: ci è famigliare questa parola perché la sentiamo ripetere ad ogni Eucaristia, poco prima di accostarci a ricevere Gesù nella comunione. Accanto a queste parole anche quella esortazione «beati gli invitati alla cena del Signore». Così la prima domanda che ci poniamo è questa: noi siamo contenti, ci sentiamo beati, perché siamo qui a celebrare l’Eucaristia? Se siamo gli invitati alla cena del Signore sentiamo la gioia di partecipare? Vogliamo che sia questo un evento festoso all’interno di questa domenica, giorno del Signore e giorno di riposo? Se non c’è questa gioia il rischio è quello di subire tutto ed il rischio è anche che poi non si abbia il desiderio di comunicare agli altri quanto abbiamo ascoltato, vissuto.
Beati coloro che possono partecipare della Mensa del Signore e riconoscono che Gesù è venuto in modo mansueto a proporre il Vangelo, un Agnello. Non c’è un’imposizione, non c’è una violenza, non c’è una costrizione: chi vuole può incontrarlo e guidato dal suo Vangelo può vivere una vita che sia conforme a quello che Lui ci ha insegnato. Si tratta di quella rivoluzione della tenerezza che il Papa continua a proporci, si tratta di raccogliere l’invito che ieri ha rivolto al Cairo nella Messa a comprendere come l’unico estremismo che Dio conosce è quello della carità, tutto il resto confonde, minaccia, fa del male. Noi siamo qui oggi per dire al Signore che cerchiamo di riconoscerlo nella presenza viva dell’Eucaristia. Questo non lo facciamo perché siamo bravi o migliori di altri, ma perché lasciamo che lo Spirito Santo agisca in noi, quello Spirito che dal giorno del nostro Battesimo ci abita e ci guida nella misura in cui noi lasciamo che sia lui a operare in noi ciò che è buono, ciò che è giusto, ciò che è vero, ciò che è bello, ciò che è santo. Il dono dello Spirito non ci giunge casualmente: abbiamo scoperto nella prima lettura che «quegli uomini furono ricolmi dello Spirito quando Paolo impose loro le mani». Il gesto dell’imposizione delle mani lo troviamo nei Sacramenti, in queste azioni efficaci di Dio che sostengono il cammino; imporre le mani nel desiderio di trasmettere attraverso l’azione operosa di Dio in noi, i suoi doni. Così la vita nello Spirito è certo esperienza personale, Lui è maestro interiore di ciascuno di noi, ma è anche esperienza comunitaria che si ha nella vita della comunità cristiana, che è certo l’Eucaristia, cuore almeno della domenica, ma si ha anche nei vari momenti in cui la comunità si raccoglie insieme per condividere il tempo dell’aggregazione, della riflessione, dell’approfondimento della fede attraverso la catechesi, della gioia del vivere insieme. Tutto utile a ricordarci che la fede non è un’esperienza settoriale, che riguarda un pezzetto della vita ma è ciò che illumina ogni esperienza della vita, così come lo Spirito Santo non è guida unicamente quando siamo qui ma è guida sempre, è lui che ispira le nostre azioni e le porta, le conduce al compimento del bene secondo quella volontà del Padre attraverso la quale noi possiamo dare alla nostra vita un felice compimento.
È decisivo allora che noi riconosciamo che Gesù è l’Agnello di Dio e riconosciamo come la sua proposta è a volte quasi disarmata, ci lascia la piena libertà: come è lontano da noi il pensiero, che ha accompagnato purtroppo anche l’esperienza della Chiesa, di voler imporre Gesù e invece come noi vorremmo raccogliere ciò che dice Giovanni «io ho visto e ho testimoniato che questo è il Figlio di Dio». Ho visto: vedere nel vangelo di Giovanni è il verbo che indica “credere”, ho creduto e ho testimoniato, cioè mi sono messo io, con la mia faccia, i miei gesti, le mie parole, a dire che Lui è il Signore.
Anche noi oggi ci domandiamo: siamo lieti di essere qui? Cosa mi spinge a cercare l’Eucaristia? Mi sento beato, felice, benedetto perché sono tra i commensali della cena del Signore? Io credo che Lui sia Figlio di Dio e, di conseguenza, cerco nella mia vita di ogni giorno di testimoniare che lui è vivo in mezzo a noi, là dove sono chiamato a vivere, con tutti gli aspetti luminosi e con tutte le fatiche? Dobbiamo avere la consapevolezza di non essere mai da soli, la fede non è un parafulmine, una campanella di vetro ma è l’esperienza di non sentirsi mai da soli e lo Spirito Santo è presenza di Dio in noi che ci accompagna, ci guida, ci ammaestra.
Invochiamo allora spesso il dono dello Spirito in questo tempo di Pasqua che ci prepara a una nuova effusione dello Spirito Santo che sarà la Pentecoste. Invochiamolo sempre: prima di compiere un’azione, prima di prendere una decisione, prima di avere un incontro con qualcuno che facciamo fatica ad amare, prima di dare un giudizio, prima di iniziare un’esperienza che ha i contorni della fatica. Non sarà mai un’opera magica, come però del resto l’amore che è sempre un affidamento, non è mai una certezza assoluta eppure solamente questa realtà è capace di sostenere le azioni più impensabili, i progetti più incredibili.
Ricordiamo infine sempre che l’esperienza della fede è certo personale ma è anche comunitaria e così la preghiera gli uni per gli altri è davvero aiuto perché ciascuno, scoprendo la volontà del Padre su di sé, porti a compimento la propria vita e senta davvero che è beato perché può partecipare della mensa del Signore, può partecipare di quel progetto buono di Dio che arriva a donare la vita, può riconoscere l’Agnello di Dio, l’unico che nella mansuetudine, nella tenerezza, nella pace, può indicare una via di salvezza per sé e per tutta l’umanità.

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