La frase più bella: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?


(Betlemme, Grotte di San Girolamo)
Cristo è spuntato nella vecchia casa malandata del mondo. Una mattina, attraverso una finestra. Non portava nulla con sé. Egli ha cominciato la sua vita campestre di cui, trent’anni dopo la sua scomparsa, i suoi amici hanno raccolto dei brandelli. La gioia dell’aria contro le tempie, le confidenza dell’acqua fra le sue mani, gli stupori delle volpi che incrociavano il suo cammino: di tutto questo non ci è stato tramandato nulla. Qualche fatto, una manciata di parole che spesso prendono in prestito la loro bellezza dall’universo dei pastori, dei pescatori, dei vignaioli: ecco tutto ciò che ci resta del passaggio su terra del più grande dei poeti. Poiché essere poeti significa proprio guardare la vita e la morte in faccia, risvegliando stelle nel nulla dei cuori. I commentatori hanno sfruttato a non finire queste parole dell’errante. Esse resistono. Il semplice è inesauribile. Come i calabroni su una pera caduta nell’erba, così si agitano i teologi, addensati attorno alle lacrime di un viso tanto umano da diventare divino.
Se dovessi conservare una sola frase di Cristo, sarebbe questa: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Matteo 27,46). È l’espressione più amorosa che ci sia. Ognuno ne conosce la vibrazione intima. Nessuna vita può fare a meno di questo grido. Queste parole che Cristo rivolge al suo invisibile padre sono il cuore segreto dell’amore, il suo centro tremante, la sua fiamma che vacilla, s’inclina e non si spegne. Esse sono pure la sola prova dell’esistenza di Dio: non ci si rivolge così al nulla. Non si lanciano rimproveri al niente. C’è qualcuno dietro questo grido, c’è un viso dietro l’abisso. Dopo questo grido, zero rumori: lo strazio del respiro, l’energia che diserta ciò che di colpo diventa carne morta. «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?»: quest’ultima vampata dello spirito, quest’ultimo zampillo di parola è pure ciò che impedisce a Cristo di essere un angelo, ciò che ne fa un uomo, il nostro fratello angosciato e fragile. I suoi amici hanno intessuto per lui un abito di scrittura quasi troppo ricco. Si potrebbe finire per pensare che egli sia un mago capace di tramutare l’acqua in vino, di moltiplicare i pani, di guarire gli inguaribili. Una lettura sonnolenta del Vangelo potrebbe farci credere che un abisso ci separa da lui, da quest’atleta dell’invisibile. Se tutto gli è stato già dato in anticipo come potrebbe raggiungerci? «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» Queste parole pronte ad esplodere sul volto di marmo di un Dio muto fanno di colui che le pronuncia un nostro intimo, il più stretto fra i parenti stretti: anzi, noi stessi quando la fiducia fuoriesce come sangue da una vena tagliata, ma continuiamo a parlare con amore a ciò che ci uccide.
(Christian Bobin, traduzione di Daniele Zappalà – Avvenire 12 febbraio 2012)


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