30 marzo 2013 - Venerdì santo: gli uni i piedi degli altri
Carissimi
Ve
lo confesso: è stata una sorpresa anche per me. Non avevo mai dato troppo peso,
infatti, a questa espressione pronunciata da Gesù dopo che ebbe finito di
lavare i piedi ai discepoli: “anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli
altri”. Gli uni gli altri, a vicenda, cioè. Scambievolmente. Questo vuol dire
che la prima attenzione, non tanto in ordine di tempo quanto in ordine di
logica, dobbiamo esprimerla all’interno delle nostre comunità, servendo i fratelli
e lasciandoci servire da loro. Spendersi per i poveri, va bene. Abilitarsi come
Chiesa a lavare i piedi di coloro che sono esclusi da ogni sistema di sicurezza
e che sono emarginati da tutti i banchetti della vita va meglio. Ma prima
ancora dei marocchini, degli handicappati, dei barboni, degli oppressi, di
coloro che ordinariamente stazionano fuori del cenacolo, ci sono coloro che
condividono con noi la casa, la mensa, il tempio. Solo quando hanno asciugato
le caviglie dei fratelli, le nostre mani potranno fare miracoli sui polpacci
degli altri senza graffiarli. E solo quando sono stati lavati da una mano
amica, i nostri calcagni potranno muoversi alla ricerca degli ultimi senza
stancarsi. Della lavanda dei piedi in altri termini, dobbiamo recuperare il valore
della reciprocità. Che è l’insegnamento più forte nascosto in quel gesto di
Gesù. Finora forse ne abbiamo fatto un po’ troppo un esercizio eroico di
conquista. L’abbiamo scambiato per uno stile di accaparramento di benevolenze
mondane. L’abbiamo inteso come un espediente missionario, capace se non di
provocare la fede, almeno di vincolare le emozioni dei cosiddetti lontani. Un
bel gesto insomma. Di quelli che fanno immagine. Soprattutto per quel gioco di
contrasti. Perché quanto più Gesù sprofonda fino a terra, tanto più emerge
l’altezza del suo messaggio. Invece, con quella frase “gli uni gli altri”,
espressa nel testo greco da un inequivocabile pronome reciproco, siamo chiamati
a concludere che brocca, catino e asciugatoio, prima che essere articoli di
esportazione, vanno adoperati all’interno del cenacolo. Non vanno collocati
fuori dalla chiesa, quasi per essere offerti come ferri del mestiere a coloro
che, terminate le loro liturgie, escono nel mondo. No. Non c’è Eucarestia
dentro e lavanda dei piedi fuori. L’una e l’altra sono operazioni complementari
da esprimere ambedue negli spazi dove i discepoli di Cristo si radunano e
vivono. Fuori semmai c’è da portare la logica di quei doni: frutti che maturano
in pienezza solo al calore della serra evangelica. In conclusione, brocca,
catino e asciugatoio devono divenire arredi da risistemare al centro di ogni
esperienza comunitaria. Con la speranza che non rimangano suppellettili
semplicemente ornamentali. Che cosa significa tutto questo per noi? Che ad esempio,
un sacerdote difficilmente potrà essere portatore di annunci credibili se,
nell’ambito del presbiterio, non è disposto a lavare i piedi di tutti gli altri
e a lasciarsi lavare i suoi da ognuno dei confratelli. Anzi, c’è di più o di
peggio. E’ l’intero presbiterio che manca di credibilità, se nel suo grembo
serpeggia il rifiuto o il riserbo sdegnoso, o il fastidio, a tal punto che i
piedi ognuno se li deve lavare per conto suo. Non si tratta di essere mondi,
cioè puri. Anche gli apostoli dell’ultima cena lo erano: “voi siete mondi”
aveva detto loro Gesù. Il problema è essere servi. Perché gli uomini accettano
il messaggio di Cristo, non tanto da chi ha sperimentato l’ascetica della
purezza, quanto di chi ha vissuto le tribolazioni del servizio. Altro che gesto
sentimentale, quello di Gesù, da incorniciare magari nell’album dei buoni
esempi! La logica della lavanda dei piedi è eversiva. A tal punto che grida
all’ipocrisia quando in una associazione ecclesiale lacerata dalle risse e
dilaniata dalle rivalità, si pretende di organizzare il pediluvio alla gente.
Ma a chi andiamo a raccontarla! Il servizio agli ultimi che stanno fuori non
purifica nessuno quando si salta il passaggio obbligato del servizio agli
ultimi che stanno dentro. Anzi si ritorce come condanna perfino su chi crede
che gli basti la riconciliazione procuratagli dai sacramenti, quando poi snobba
quella grande riconciliazione con la vita che si raggiunge lavando i piedi del
prossimo più prossimo. Gli uni gli altri. A partire dalle famiglie. Che non
possono dirsi cristiane se non assumono la logica della reciprocità. Perché, se
il marito smania di lavare i piedi ai tossici, la moglie si vanta di servire
gli anziani, e la figlia maggiore fa ferro e fuoco per andare al terzo mondo
come volontaria, ma poi tutte e tre non si guardano in faccia quando stanno in
casa, la loro è soltanto una contro testimonianza penosa che danneggia perfino
i destinatari di un servizio apparentemente così generoso. Ce n’è abbastanza
perché la ripetizione rituale della lavanda dei piedi che tra la commozione
generale, celebreremo il giovedì santo, ci metta nell’animo una voglia
struggente di servizio, di accoglienza e di pace. Verso tutti. A partire dai
più vicini. E ci mandi in crisi, più che mandarci in estasi. Perché, visto che
siamo così lenti a convertirci, quella brocca è esposta al sacrilegio non meno
della stessa Eucarestia.
(Tonino Bello)
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