29 marzo 2013 - Venerdì santo: i piedi di Giovanni
Carissimi,
è proprio un arrampicarsi
sugli specchi voler trovare nei singoli beneficiari della lavanda dei piedi
operata da Gesù, la sera del giovedì santo, altrettanti simboli delle diverse
condizioni umane sulle quali egli, per impegnarci in un servizio preferenziale
di amore, ha inteso richiamare la nostra attenzione?
Ed è proprio fuori posto
vedere in Giovanni l’emblema di quel mondo ad alto rischio che si chiama
gioventù, e che oggi, nonostante il grande parlare che se ne fa e nonostante il
timore non sempre reverenziale che esso incute, tarda ancora a divenire il
referente privilegiato della nostra diaconia ecclesiale?
Ed è proprio una forzatura
concludere che il Maestro, piegato sui piedi di Giovanni, il più giovane della
compagnia, è l’icona splendida di ciò che dovrebbe essere la Chiesa, invitata
dal quel gesto a considerare i giovani come “ultimi”, non tanto perché ai
gradini più bassi della scala cronologica della vita, quanto perché ai livelli
più insignificanti nelle graduatorie di coloro che contano?
Penso proprio di no.
Anzi, se qualcuno,
fuorviato dal chiasso che fanno, dovesse giudicare demagogica l’ affermazione
che i giovani oggi non hanno voce, mostra di aver frainteso il senso delle
tenerezze espresse da Gesù verso quel mondo che ha sempre fatto fatica a farsi
ascoltare.
La figlia di Giairo, il
servo del centurione, l’unigenito della vedova di Nain, il giovane ricco, il
figliol prodigo… sono indice di uno sbilanciamento del Signore nei confronti di
coloro che, pur essendo oggetto di invidia struggente, hanno da sempre accusato
un deficit pesantissimo in fatto di accoglienza.
Ma torniamo ai piedi di
Giovanni.
Come motivo iconografico,
ma anche come suggestione omiletica, non hanno avuto molto fortuna.
E dire che la mattina di
Pasqua, nella corsa verso il sepolcro, si sono dimostrati di gran lunga più
veloci di quelli di Pietro, aggiudicandosi, a un palmo della tomba vuota, la
prima edizione del trofeo “fede, speranza e carità”.
Ma al di là dello scatto
irresistibile del giovane sull'affanno impacciato del vecchio, quei piedi non
sono entrati nell'immaginario della gente.
La spiegazione è semplice:
la testa del discepolo ricurva sul petto del Maestro ha distratto l'attenzione
dal capo del Maestro chino sui piedi del discepolo.
È una riprova ulteriore di
come, anche nella Chiesa, le lusinghe emotive della teatralità prevaricano
spesso sulla crudezza del servizio terra terra.
Che cosa voglio dire? Che
noi ci affanniamo, sì, a organizzare convegni per i giovani, facciamo la
vivisezione dei loro problemi su interminabili tavole rotonde, li frastorniamo
con l'abbaglio del meeting, li mettiamo anche al centro dei programmi
pastorali, ma poi resta il sospetto che, sia pure a fin di bene, più che
servili, ci si voglia servire di loro.
Perché diciamocelo con
franchezza, i giovani rappresentano sempre un buon investimento. Perché sono la
misura della nostra capacità di aggregazione e il fiore all'occhiello del
nostro ascendente sociale. Perché se sul piano economico il loro favore rende
in termini di denaro, sul piano religioso il loro consenso paga in termini di
immagine. Perché, se comunque, è sempre redditizia la politica di accompagnarsi
con chi, pur senza soldi in tasca, dispone di infinite risorse spendibili sui
mercati generali della vita.
Servire i giovani, invece,
è tutt'altra cosa.
Significa considerarli
poveri con cui giocare in perdita, non potenziali ricchi da blandire
furbescamente in anticipo.
Significa ascoltarli.
Deporre i panneggi del nostro insopportabile paternalismo. Cingersi l'asciugatoio
della discrezione per andare all'essenziale. Far tintinnare nel catino le
lacrime della condivisione, e non quelle del disappunto per le nostre sicurezze
predicatorie messe in crisi. Asciugare i loro piedi, non come fossero la
pròtesi dei nostri, ma accettando con fiducia che percorrano altri sentieri,
imprevedibili, e comunque non tracciati da noi.
Significa far credito sul
futuro, senza garanzie e senza avalli. Scommettere sull'inedito di un Dio che
non invecchia. Rinunciare alla pretesa di contenerne la fantasia. Camminare in
novità di vita verso quei cieli nuovi e quelle terre nuove a cui si sono sempre
diretti i piedi di Giovanni, l'apostolo dagli occhi di aquila, che è morto
ultracentenario senza essersi stancato di credere nell'amore.
Servire i giovani significa
entrare con essi nell'orto degli ulivi, senza addormentarsi sulla loro
solitudine, ma ascoltandone il respiro faticoso e sorvegliandone il sudore di
sangue.
Significa seguire, sia pur
da lontano, la loro via crucis e intuire, come il Cireneo ha fatto con Gesù,
che anche quella dei giovani, abbracciata insieme, è una croce che salva.
Significa, soprattutto,
essere certi che dopo i giorni dell'amarezza c'è un'alba di risurrezione pure
per loro.
E c'è anche una pentecoste.
La quale farà un rogo di tutte le scorie di peccato che invecchiano il mondo. E
attraverso la schiena della terra adolescente con un brivido di speranza.
Saremo capaci di essere una chiesa così serva dei giovani, da investire tutto
sulla fragilità dei sogni?
(Tonino Bello)
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