5 marzo 2013 - Ha ancora senso il digiuno?
«Quando
tu digiuni,
profùmati la testa e làvati il volto ».
(Mt
6,17)
In una stagione
in cui i modelli offerti soprattutto alle giovani generazioni sono quelli della
vanità, del successo a ogni costo, dell’esibizione, dell’incontinenza verbale e
comportamentale, i cristiani dovrebbero avere il coraggio e la franchezza di testimoniare
messaggi capaci di aiutare gli uomini a percorrere cammini di liberazione e non
di asservimento a idoli e miti illusori e fallaci. E la Quaresima, tempo
di 'esercizio' per una vita spirituale più profonda e autentica, può essere
l’occasione per richiamare tutti all’etica perché il problema economico,
politico e sociale che affligge l’occidente è in ampia misura di natura etica,
dunque un problema di coscienze e di scelte individuali che plasmano e
progettano la convivenza civile.
Molto opportunamente
il messaggio di Benedetto XVI per la Quaresima di quest’anno è un
invito e un insegnamento sul digiuno cristiano che è anche pratica di sobrietà,
un antidoto alla voracità e al consumismo, un rapporto con i beni che aiuti la
qualità della vita degli esseri umani in società. Il discorso sul digiuno si
colloca quindi nell’esercizio della coscienza individuale, ma riguarda la
societas ed è essenziale per tracciare cammini di condivisione e di comunione.
Per questo è
molto importante che la chiesa rinnovi il suo insegnamento sul digiuno,
soprattutto oggi che esso viene riscoperto come valore per ragioni estetiche,
salutiste, igieniste e anche ideologico-politiche.
Questo dato fa sì
che, nonostante l’ideologia consumista, il messaggio cristiano trovi un’accoglienza
più attenta oggi rispetto ai decenni passati.
Eppure – in
ambito occidentale e a differenza di quanto accade ancora oggi presso le chiese
d’oriente – la pratica ecclesiale del digiuno è di fatto quasi scomparsa:
l’astinenza dalle carni al venerdì liberamente sostituibile con altri gesti
slegati dal rapporto con il cibo, il digiuno ascetico limitato a due soli
giorni all’anno – il mercoledì delle Ceneri e il Venerdì santo – quello in
preparazione alla comunione eucaristica ridotto formalmente a un’ora...
Così una prassi
vissuta già da Israele, riproposta da Cristo, accolta dalla grande tradizione
ecclesiale d’oriente e d’occidente, è sempre meno presente, non più richiesta.
Fenomeno
apparentemente paradossale, perché se esaminiamo i dati biblici sul digiuno,
troviamo che esso assume, fin dall’Antico Testamento, valenze molteplici e
ancora attualissime. Da rito di dolore e di lamento che riveste anche caratteri
penitenziali, comune a tante tradizioni religiose, il digiuno si sviluppa
infatti come pratica che alimenta la preghiera, personale e comunitaria, e come
preparazione all’incontro con Dio: emblematico in questo senso il digiuno
chiesto a Mosè e al popolo di Israele prima del dono della Legge sul Sinai e
della stipulazione dell’alleanza. E proprio questa dimensione di preparazione
fa del digiuno una via privilegiata per un rapporto autentico con Dio e con gli
altri, capace com’è di educare al rifiuto della voracità, a un contenimento
dell’aggressività, a un implemento della condivisione, a una prassi di
giustizia.
Nel Nuovo
Testamento l’inizio del ministero pubblico di Gesù è significativamente
preceduto da un digiuno prolungato: con esso Gesù respinge così gli assalti del
tentatore (Mt 4,2), vincendo le dominanti che condizionano l’uomo e lasciando un
esempio ai suoi discepoli. Dai quaranta giorni di Gesù nel deserto e dal suo
conseguente operare il bene in mezzo agli uomini emerge con chiarezza il fine
del digiuno: l’obbedienza alla volontà di Dio e al suo disegno di amore per
l’umanità. Il cristiano non vive di solo pane, di cibo materiale, ma
soprattutto della Parola e del Pane eucaristici, della vita divina: una prassi
personale ed ecclesiale di digiuno fa parte della sequela di Gesù che ha
digiunato, è obbedienza al Signore che ha chiesto ai suoi discepoli la
preghiera e il digiuno (Mt 9,15; Mc 9,29; cf. At 13,2-3; 14,23), è confessione
di fede fatta con il corpo, è pedagogia che porta la totalità della persona
all’adorazione di Dio. Venuti i giorni in cui «lo Sposo è tolto», dice Gesù, «i
discepoli digiuneranno» (Mc 2,20), attestando così a loro stessi e alla
comunità che ne attendono il ritorno pregando e digiunando.
Certo, il rischio
di fare del digiuno un’opera meritoria, una performance ascetica è sempre
presente, ma la tradizione biblica ammonisce che esso deve avvenire nel
segreto, nell’umiltà (Mt 6,1-18), con uno scopo preciso: la giustizia, la
condivisione, l’amore per Dio e per il prossimo: «Non è piuttosto questo il
digiuno che voglio: sciogliere le catene inique, togliere i legami del giogo,
rimandare liberi gli oppressi e spezzare ogni giogo?» (Is 58,6). Ecco perché
anche la tradizione patristica è molto equilibrata, sapiente ed esigente su
questo tema: «Il digiuno è inutile e anche dannoso per chi non ne conosce i
caratteri e le condizioni» (Giovanni Crisostomo); «È meglio mangiare carne e
bere vino piuttosto che divorare con la maldicenza i propri fratelli» (Abba
Iperechio); «Se praticate l’ascesi di un regolare digiuno, non inorgoglitevi.
Se per questo vi insuperbite, piuttosto mangiate carne, perché è meglio
mangiare carne che gonfiarsi e vantarsi» (Isidoro il Presbitero)... Sì, il fine
della vita cristiana è la carità, e il digiuno è sempre e solo un mezzo, ma la
chiesa richiede questa prassi nella consapevolezza che il corpo va coinvolto
nella preghiera e che la fatica: la lotta contro le tentazioni non possono
essere ridotte a una dimensione intellettuale.
Così, per
ritrovare la propria verità, quella verità umana che con la grazia diventa la
verità cristiana, occorre pensare, pregare, condividere i beni, conoscere il
male che ci abita, ma anche digiunare quale disciplina dell’oralità. Il
mangiare appartiene al registro del desiderio, deborda la semplice funzione
nutritiva per rivestire rilevanti connotazioni affettive e simboliche. L’essere
umano in quanto tale non si nutre di solo cibo, ma di parole e gesti scambiati,
di relazioni, di amore, cioè di tutto ciò che dà senso alla vita nutrita e
sostentata dal cibo. Il mangiare del resto dovrebbe avvenire insieme, in una
dimensione di convivialità, di scambio che invece, purtroppo e non a caso, sta
a sua volta scomparendo in una società in cui il cibo è ridotto a carburante da
assimilare abbondantemente e il più sbrigativamente possibile.
Il digiuno svolge
allora la fondamentale funzione di farci discernere qual è la nostra fame, di
che cosa viviamo, di che cosa ci nutriamo e di ordinare i nostri appetiti
intorno a ciò che è veramente l’unico necessario. E tuttavia sarebbe
profondamente ingannevole pensare che il digiuno – nella varietà di forme e
gradi che la tradizione cristiana ha sviluppato: digiuno totale, astinenza
dalle carni, assunzione di cibi vegetali o soltanto di pane e acqua –, sia
sostituibile con qualsiasi altra mortificazione o privazione. Il mangiare
rinvia al primo modo di relazione del bambino con il mondo esterno: il bambino
non si nutre solo del latte materno, ma inizialmente conosce l’indistinzione
fra madre e cibo; quindi si nutre delle presenze che lo attorniano: egli
'mangia', introietta voci, odori, forme, visi, e così, pian piano, si edifica
la sua personalità relazionale e affettiva. Questo significa che la valenza
simbolica del digiuno è assolutamente peculiare e che esso non può trovare
'equivalenti' in altre forme di rinuncia: gli esercizi ascetici non sono interscambiabili!
Con il digiuno
noi impariamo a conoscere e a moderare i nostri molteplici appetiti attraverso
la moderazione di quello primordiale e vitale: la fame, e impariamo a
disciplinare le nostre relazioni con gli altri, con la realtà esterna e con Dio,
relazioni sempre tentate di voracità.
Il digiuno è
ascesi del bisogno ed educazione del desiderio. Solo un cristianesimo insipido
che si comprende sempre più come morale sociale può liquidare il digiuno come
irrilevante e pensare che qualsiasi privazione di cose superflue (dunque non
vitali come il mangiare) possa essergli sostituita: è questa una tendenza che
dimentica lo spessore del corpo e il suo essere tempio dello Spirito santo. In
verità il digiuno è la forma con cui il credente confessa la fede nel Signore
con il suo stesso corpo, è antidoto alla riduzione intellettualistica della
vita spirituale o alla sua confusione con lo psicologico.
In questo senso
la quaresima può essere davvero il tempo propizio che ci riporta, ci fa tornare
– è il senso primario della conversione – all’autenticità di una vita cristiana
secondo la volontà di Dio, anche nelle sue espressioni di sobrietà e di ascesi.
Così il digiuno
può assumere di nuovo i suoi connotati più marcatamente biblici e cristiani:
non una pur sana disintossicazione dalla bulimia generalizzata, non una
semplice pratica per ritrovare il benessere fisico, ma un modo di esprimere con
tutte le fibre del nostro essere il fatto che vero nutrimento per noi è ogni
parola che esce dalla bocca di Dio, un reimparare la disciplina dell’oralità
perché noi siamo ciò di cui ci nutriamo e la nostra bocca parla dalla pienezza
del cuore. Un modo, il digiuno, anche di condividere con semplicità e
immediatezza i beni di questa terra, dati a noi perché diventino di tutti e non
di pochi; un modo di richiamare la nostra vigilanza sul fatto che l’astensione
da praticare non è solo e tanto quella da un boccone di cibo, ma dal nutrirsi
dell’ingiustizia, dall’ingrassare in potere e ricchezza a spese degli ultimi,
dall’ignorare il fratello nel bisogno.
Il messaggio di
Benedetto XVI per questa quaresima, così come le indicazioni della Conferenza
Episcopale Italiana del 1994 sulla prassi del digiuno andrebbero prese sul
serio e fatte oggetto della catechesi quaresimale, soprattutto in un tempo come
il nostro in cui il consumismo ottunde la capacità di discernere tra veri e
falsi bisogni, in cui lo stesso digiuno e le terapie dietetiche divengono
oggetto di business, in cui pratiche orientali di ascesi ripropongono il
digiuno, e la quaresima è sbrigativamente letta come l’equivalente del ramadan
musulmano, il cristiano ricordi il fondamento antropologico e la specificità
cristiana del digiuno: esso è in relazione alla fede perché fonda la domanda:
«Cristiano, di cosa nutri la tua vita?» e, nel contempo, pone un interrogativo
lacerante: «Che ne hai fatto di tuo fratello che non ha cibo a sufficienza?».
(Ermes Ronchi)
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