5 luglio 2015 - VI domenica dopo Pentecoste
Dopo
aver contemplato la figura di Abramo, padre nella fede, colui che si mette in
ascolto della Parola di Dio, che apre il cuore all’ascolto e agisce secondo
quanto ha ascoltato, lui che è padre nella fede perché ancora prima di avere
dei segni si è fidato di Dio e ha percorso le sue strade, oggi ci viene
consegnata la figura di Mosè.
Quest’uomo
che ha una vicenda da una parte straordinaria e dall’altra tragica:
straordinaria perché, salvato dalle acque, entra a far parte della corte del
faraone e poi fugge ricercato perché ha commesso un omicidio; fugge lontano e
dopo molti anni in una terra che non è la sua, dove si è ricostruito un futuro,
una famiglia, fa un incontro che gli cambia nuovamente la vita. Così lo
spettacolo del roveto che arde e non si consuma diventa l’occasione per
confrontarsi con il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe. Anche lui riceve
una parola e si fida di questa parola nonostante tutte le sue obiezioni,
nonostante il progetto che gli viene affidato sia pazzesco: tornare dal
faraone, da colui che lo aveva cacciato. Tornare unicamente con la forza di una
parola e di una promessa: il tuo popolo
abiterà questa terra. Mosè si fida e la fede di quest’uomo permetterà al
popolo di Israele di fare esperienza della salvezza, della risposta di Dio al
grido del popolo oppresso e condurrà le tribù di Israele fino alle soglie della
terra di Canaan.
Ci
viene poi ancora una volta proposta la figura di Paolo, quest’uomo che vive una
profonda formazione alla scuola di uno dei più grandi maestri d’Israele,
Gamaliele; un uomo educato nella più stretta osservanza dei precetti, nati
dall’ascolto della Torah, lui che può vantarsi di essere un fariseo integro,
che non ha ombra nel suo comportamento, che diventa persecutore di coloro che
seguono il Cristo perché minaccia ciò che lui aveva imparato. Anch’egli fa
un’esperienza straordinaria dell’incontro con Cristo e così sulla via di
Damasco incontra quel Signore che stava perseguitando e da allora cambia la
vita, non certamente come per Mosè una vita semplice, spesso messo in
discussione, spesso a dover giustificare la sua condotta perché sempre guardato
con sospetto da coloro che ricordavano essere stato un nemico. Paolo dice che
la sua unica sapienza è quella che viene dalla croce di Cristo, non un Vangelo
imposto con la violenza, non un Vangelo fatto di precetti, di ordini, di
imposizioni ma un Vangelo che è annunciato anzitutto a tutti coloro che sono
piccoli, deboli, fragili, peccatori. Questa sapienza è per coloro, come dice il
Vangelo, che Gesù ha introdotto nella conoscenza di Dio Padre. Il brano di
Vangelo che abbiamo ascoltato, nei primi versetti che non sono riportati dice
proprio la lode di Gesù verso il Padre perché ha rivelato la sapienza di Dio ai
piccoli, ai deboli, ai poveri, ai peccatori.
Se
da una parte abbiamo bisogno di figure come quella di Mosè e di Paolo che fanno
esperienze straordinarie del Signore e diventano punti di riferimento per il
cammino di popolo e per il cammino della Chiesa, c’è poi una rivelazione più
quotidiana fatta di avvenimenti meno eclatanti che però riguarda ciascuno di
noi. Tutti noi possiamo ritrovarci in questo popolo di piccoli, di deboli e
questo Dio che riveste di qualità straordinarie coloro che sono davvero spesso
a misurarsi con la loro incapacità. È Dio che ci riveste della sua benevolenza,
della sua tenerezza e, come anche Papa Francesco continua a richiamarci, della
sua misericordia. Così il popolo dei credenti non è un popolo di puri, di
perfetti, di giusti ma è sempre un popolo di uomini e donne che hanno accolto
il Vangelo e vivono nell’esperienza del perdono la possibilità di costruire
legami nuovi, di stima, di comunione, di concordia.
Verità
del Vangelo è che l’uomo diventi se stesso, cioè capace di relazioni autentiche
che nascano dalla comunione con Dio. Un Vangelo che non fosse così non sarebbe
il Vangelo. Gesù ci dice che il giogo da
portare è dolce, leggero. Nella tradizione biblica il giogo è la legge. Gesù è venuto a portarci la Legge dell’Amore e perché
noi possiamo vivere quest’esperienza dell’amore non in maniera sdolcinata o
legata ai canoni di questo tempo, dobbiamo imparare dal suo cuore che è mite e umile.
Mitezza che non è
debolezza ma è la forza di chi può dire le proprie idee senza avere la
preoccupazione che tutti aderiscano a quello che si pensa, ma che possano
ascoltare un messaggio offerto con la forza di chi dice “io ho affidato a
questo Signore la mia vita, per questo te ne parlo”. Poi umile, che non significa che non vale niente; l’umile è colui che
ha una giusta conoscenza di sé, che non si esalta inutilmente e non si abbassa
per evitare di prendersi impegni. L’umile è un uomo impegnato, forte, perché è
coerente nelle sue scelte, autentico in quello che compie, sa misurarsi per
quello che è, non ha invidia degli altri. L’umile è colui che ha come unico
desiderio di lasciare che il Signore lo abiti con la sua grazia perché solamente
con la grazia di Dio si possono compiere opere grandi.
Chiediamo
allora al Signore di poter incontrare nella nostra vita uomini che abbiano una
fede statuaria come quella di Mosè, una fede coraggiosa come quella di Paolo.
Ma chiediamo anche per noi il dono di una fede autentica, che imparando dal
cuore di Cristo mite e umile, si gioca nella vita di tutti i giorni sapendo che
con la grazia di Dio nulla è impossibile. Chiediamo al Signore che questa
celebrazione eucaristica, all’inizio di una nuova settimana, ci permetta di
rinnovare il desiderio di una sequela, d un discepolato che fa del Vangelo la
legge della propria vita, una legge che non è sentita come un’imposizione, come
una gabbia ma come la possibilità di vivere pienamente la propria libertà, la
propria capacità di amare ogni uomo.
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