11 ottobre 2015 - VII domenica dopo il martirio di Giovanni il Battista


Non abbiamo mai tempo per il Signore. Abbiamo sempre tante occupazioni, preoccupazioni che gestiscono il nostro tempo e così penso che capiti a tutti voi di dire “non ho tempo”. Questo non avere tempo significa sacrificare qualche cosa per dare retta a qualcosa d’altro. Non avere tempo per il Signore significa sostituirlo con qualcun altro, con qualcosa d’altro. Nella Scrittura, nella Bibbia, il più grande peccato è l’idolatria, cioè mettere qualcosa d’altro al posto di Dio, qualcun altor. L’idolo è un oggetto che nasce dalla mente e dall’abilità dell’uomo, è una proiezione di quello che vorremmo essere, di quello che vorremmo avere e da sempre gli uomini costruiscono degli idoli. È famosa la pagina di Mosè che scende dal monte, dopo aver ricevuto le tavole della Legge e trova il suo popolo che ha costruito un vitello d’oro, memoria di quell’esperienza che aveva fatto in Egitto dove una delle divinità appariva così.
La prima lettura ci dice state attenti! Nessun idolo può compiere quello che ha compiuto Dio, nessuno vi ha salvato dalle acque del Mar Rosso, nessuno vi ha tratto dalla schiavitù, nessun idolo. L’inganno dell’idolo è che possiamo piegarlo al nostro volere: poiché non ha anima, non è vivo, fa quello che diciamo noi, mentre il Dio di Isacco, di Abramo, di Giacobbe, il Dio di Gesù Cristo è vivo. Io sono colui che sono. Io sono il vivente.
La prima domanda che tengo nel cuore per me, innanzitutto: se non ho tempo per il Signore, l’ho per qualcun altro, per qualcosa d’altro. Per chi? Chi è oggi il mio idolo? A chi dedico il meglio della mia vita? Per quale motivo vivo? Per quale motivo mi impegno tutto il giorno? Corro, lavoro… Spendo le mie migliori energie. Per chi?
Paolo ci mette in guardia da un pericolo che attraversa la comunità cristiana e la chiesa da sempre: le divisioni all’interno della comunità. Un pericolo che è legato al fatto che uno possa seguire con più favore questo o quel maestro che non il Vangelo di Gesù. Sappiamo che nelle comunità ci sono sempre state delle mediazioni, tuttavia il Vangelo è vero indipendentemente dai suoi maestri. Così Paolo è chiaro nel dire “nessuno appartiene in maniera reale, vera se non a Gesù Cristo”. Paolo, Pietro sono degli strumenti ma il cristiano vero si riconosce solamente nella fedeltà a Gesù Cristo. Ci rendiamo conto di quanto siano importanti le mediazioni. Sono molti coloro che in questo tempo hanno riacquistato fiducia nell’insegnamento del Vangelo tramite la testimonianza di Papa Francesco, ma quanto Papa Francesco annuncia era vero anche per Papa Benedetto, per Papa Giovanni Paolo II, Giovanni Paolo I e Paolo VI, Giovanni XXIII, Pio XII. Non è cambiato il Vangelo. Dobbiamo forse domandarci: a chi vogliamo appartenere? Ci rendiamo conto che siamo Chiesa e questo in virtù di quel Battesimo che ci accomuna tutti indipendentemente dai percorsi di vita, dalle tradizioni che abbiamo vissuto, dai maestri che abbiamo incontrato. Noi siamo agiti dallo Spirito in virtù di quella presenza di Dio in noi, Spirito Santo che dal giorno del nostro battesimo guida la nostra vita.
La seconda domanda che porto nel cuore è questa: io con il mio modo di vivere, di essere creo comunione nella comunità? Sono un cristiano che partecipa alla vita della Chiesa favorendo un cammino di Comunione? Mi sento parte di questa comunità cristiana non perché prendo qualche servizio ogni tanto ma perché attivamente, attraverso la mia preghiera personale, la mia partecipazione all’Eucaristia, attraverso la vita sacramentale e il mio servizio nella comunità e nella società civile dico che io appartengo al Dio di Gesù Cristo? Che il Vangelo è per me riferimento certo del mio agire? Che sono lieto di appartenere a questa esperienza di chiesa che, anche se non è perfetta, è il luogo dove Dio si rivela?
Il Vangelo poi ci riporta attraverso delle immagini, delle parabole a riflettere su quella vita quotidiana che ci è chiesta di continuamente convertire all’annuncio del Vangelo. Così, questa parabola del grano buono e della zizzania, che il nostro Arcivescovo aveva scelto due anni fa come immagine per dire la volontà di una Chiesa intera, la Chiesa ambrosiana, di mettersi in dialogo con la realtà contemporanea – «Il Campo è il mondo», così ci aveva detto nella sua lettera pastorale -, ci ricorda che ancora prima il campo che ci viene presentato oggi, seminato da buon seme e abitato dalla zizzania, è il nostro cuore. Ancora prima di essere qualcosa all’esterno, è qualcosa all’interno; ancora prima di essere un giudizio su questa società e sui suoi mali, è un sguardo che abbiamo dentro di noi, dentro il nostro cuore, la nostra vita. Ci rendiamo conto che oggi possiamo chiedere al Signore di avere uno sguardo su di noi come ce l’ha Lui. Lui vede innanzitutto il grano buono e per questo non vuole che violentemente si strappi quello che è negativo, perché il rischio è quello di buttare via tutto. Proviamo a pensare: quanti difetti, inclinazioni che riconosciamo non buone siamo riusciti a vincere nel corso nella nostra vita? Forse, concentrarci troppo su questo voler togliere invece di favorire quello che c’è di buono, ci impedisce di avere uno sguardo su di noi e sugli altri.  Tanto che a volte siamo un po’ lieti che qualcuno sia un po’ peggio di noi per giustificarsi invece di spendere le nostre energie per fare in modo che il buon grano cresca sempre di più, che sia più forte di quell’inclinazione al male che ci appartiene, di quel appartenere a un’umanità che, per quanto possa godere di ogni dono di Dio, va sempre a scegliere ciò che è sfiducia nei suoi confronti.
Tengo nel cuore questa domanda: io che sguardo ho sulla mia vita? Sono lieto di quello che Dio compie dentro di me? Mi rendo conto che custodire i talenti che ho ricevuto significa ogni giorno ricominciare la mia vita orientandola verso di Lui che mi guarda con misericordia? Se coltivo questo sguardo su di me allora posso averlo anche sugli altri, su questo mio mondo, su questa mia chiesa. Allora sento che pur in minoranza, anche se a volte marginale, la mia vita può essere lievito nella pasta. Il lievito è una realtà piccola, così sproporzionata rispetto alla farina eppure senza quest’anima invisibile la farina rimarrebbe inerte, non diventerebbe mai quello che è destinata ad essere. Anch’io allora posso, così come sono, essere lievito, portare il mio contributo perché attraverso il mio desiderio quotidiano di appartenere al Signore, di essere Suo testimone, di vivere il Vangelo nella concretezza delle mie giornate, io possa contribuire a rendere questo mondo più accogliente del mistero di Dio e per questo più capace di corrispondere alla sua vocazione, quella definitiva che per noi è quella di partecipare della Comunione di Dio, che per noi si rivela in Gesù Cristo e che diventa pane del cammino, parola che sostiene, conforta e guida.
Anche se a volte ci sentiamo piccoli, pensiamo a questo granellino di senape, il più piccolo di tutti i semi ma che poi diventa grande ed è capace di accogliere gli uccelli del cielo. In fondo, abbiamo oggi l’invito a guardarci come ci guarda il Signore. Lui vede sempre il grano buono, per Lui non siamo mai la somma dei nostri errori, per Lui è sempre possibile che il bene che faccio oggi sia più promettente del male che ho fatto ieri.

Ci disponiamo a vivere questa domenica con grande letizia, pensando ai nostri ragazzi che oggi ricevono la Cresima, confermazione di un progetto di Dio che è iniziato quando erano cuccioli, quando a loro abbiamo prestato noi la voce, quando gli abbiamo portati davanti al Signore. Ora camminano da soli, possono stare davanti a Lui e dire «Sì, ci credo. Sì, lo voglio». È possibile che non tutti siano pronti, preparati; è possibile che anche noi grandi vediamo più la zizzania che il buon grano che è seminato nella loro vita, ma questo non è lo sguardo che li favorisce, che li fa crescere e li fa diventare cristiani adulti. Lo sguardo che noi dobbiamo avere su di loro è quello dello stupore perché Dio non si stanca mai di venirci a cercare, perché Lui semina sempre di giorno mai di notte, perché Lui è il Signore della Luce; perché anche se giovani, piccoli, portano dentro di sé la promessa di poter vivere una vita secondo il Vangelo. La nostra preghiera è tutta per loro perché nel gesto che vivono, accompagnati dai loro genitori, dal padrino e dalla madrina e da tutta la Comunità, possano sentire una grande e profondissima gioia che li accompagni nel decidere di continuare a cercare il Signore per non correre il rischio di dedicare la propria vita agli idoli; per non correre il rischio di essere divisi dal Signore; per non correre il rischio di pensare di essere incapaci di portare nel mondo un segno di speranza, un seme di futuro, il grano buono della loro vita.

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