24 aprile 2016 - V domenica di Pasqua


Si può obbligare qualcuno ad amare? Si può obbligare qualcuno a dire “offro la mia vita a questa persona perché sono stato comandato”?
Non si può obbligare qualcuno ad amare. Oggi abbiamo ascoltato nel brano di Vangelo questo comandamento nuovo «amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi». Se non si può essere comandati, se non può comandare a qualcuno di amare, cosa vorrà dire “ricevere un comandamento”?
Noi conosciamo già i comandamenti: ce ne sono altri che ci sono stati consegnati e che troviamo nel Primo Testamento; dieci parole che descrivono il comportamento nei confronti di Dio e nei confronti degli altri. Alcuni invocano queste dieci parole come sufficienti per determinare i rapporti tra le persone e spesso alcuni si nascondono dietro questi comandamenti per distinguere chi è giusto da chi è ingiusto.
Forse, questa parola, comandamento, la possiamo leggere alla luce della Parola di Dio di questa domenica e comprendere, come dice Paolo, che c’è una via per aspirare a un carisma più grande, cioè a una grazia di Dio maggiore, una via che trova nel comandamento dell’amore cioè nella storia di Gesù e nel modo in cui lui ama, la strada per giungere a questo compimento felice. Comandamento non tanto come un obbligo ma come un invito, come una strada da percorre.
La possibilità che noi impariamo ad amare sta nel fatto che decidiamo che Gesù centri con la nostra vita.
Così scopriamo che nella prima comunità cristiana aumentando il numero di coloro che aderiscono al Vangelo, nascono delle dinamiche nuove. Prima si era in pochi e quindi i bisogni erano pochi, ma aumentando le necessità diventano sempre di più. I discepoli, che hanno fondato le comunità intorno a quattro elementi fondamentali che sono l’ascolto della parola di Dio, la preghiera, l’Eucaristia e la carità, dicono “se qualcuno tra noi è bisognoso, tutta la comunità è in difficoltà”. La condivisione nasce come urgenza e come fondamento non ha solamente una buona inclinazione del cuore ma soprattutto il credere la risurrezione di Gesù. È possibile vivere una comunità così se io credo che Gesù Cristo il Risorto centra con la mia e con la nostra vita. È quello che intuisce anche Barbara nel gesto di vendere il campo, è quello che non intuiranno Anania e Safira, perché la comunità dei cristiani da subito rileva questo aspetto che non deve destare scandalo: la fragilità degli uomini, l’incapacità di accogliere l’amore di Dio non è ostacolo al fatto che progressivamente questo amore arrivi al cuore di tutti. Anche nel momento in cui qualcuno volesse ostacolarlo, questo amore attraverso un percorso difficile arriverà al suo compimento. È quello che abbiamo ascoltato nel Vangelo: sono le parole che Gesù rivolge ai suoi amici nell’Ultima Cena. Giovanni, nel suo Vangelo, non racconta dell’ultima cena ma parla della lavanda dei piedi, un gesto che era compiuto dagli schiavi nei confronti dei loro padroni. Gesù lava i piedi a tutti i dodici, anche a Giuda e per questo può dire ai suoi amici «amatevi come io vi ho amato». La novità non sta nell’amore - tutti i giorni sentiamo parlare di amore, le nostre giornate sono piene di questa parola che viene usata così tanto da essere svuotata - ma nella sua stessa vita. Il suo amore per i suoi amici è tale anche quando uno dei suoi amici lo rifiuta, anche quando nel cuore di Giuda c’è già la decisione di tradirlo. Questa è la novità del Vangelo ed è quello che ci ostacola e scandalizza. Gesù dice che noi saremo credibili non perché siamo in tanti, perché abbiamo delle belle chiese, dei bei oratori, perché proponiamo delle belle iniziative ma la nostra credibilità sarà nell’amore che avremo gli uni per gli altri, da questo vi riconosceranno. Dobbiamo allora domandarci se noi vogliamo che sia così. Non possiamo venire alla Messa per ottemperare un precetto; noi veniamo per imparare come si ama, per imparare da Gesù cosa significhi amare perché poi, nelle scelte di tutti i giorni, comprese le nostre fragilità, scegliamo di vivere come Lui. Questo è il motivo per cui veniamo all’Eucaristia e ce ne cibiamo. Altrimenti non avrebbe senso, sarebbe tempo perso. Questa è però una via, non un punto di partenza. Paolo dice «aspirate ai carismi più grandi, desiderate qualcosa di più per la vostra esistenza. Io vi mostro una via». Iniziando a percorrere una via non si arriva immediatamente alla fine, c’è chi ci mette più tempo, chi fa più fatica, chi si ferma, chi è più incerto, chi ci ripensa… ma la meta è una, è questa: la carità, che rimane al di là della speranza perché quando incontreremo il Signore faccia a faccia non avremo più bisogno né della fede né della speranza ma ci rimarrà quella carità, quell’amore che abbiamo vissuto qui ora e che si dilaterà per l’eternità, in quella contemplazione dell’amore di Dio che è per sempre. Per questo la carità non avrà mai fine ed è più grande di tutti.
Oggi scegliamo se vogliamo che la nostra vita sia fondata sull’evento della Risurrezione di Cristo e per questo diventi concretezza quotidiana dell’amore oppure se ci accontentiamo di compiere alcuni riti che però non ci cambiano la vita.
Oggi accogliamo una nuova opera di misericordia spirituale: consolare gli afflitti. L’afflizione è un’esperienza che tutti un po’ facciamo: può essere legata alla malattia, alla perdita del lavoro, a un’incomprensione, a un’ingiustizia, a un’amicizia che si rompe, a un tradimento, alla perdita di una persona cara… l’afflizione la sentiamo spesso dentro nel cuore. Consolare gli afflitti vuol dire stare con chi è solo, con chi è nell’afflizione. A volte siamo un po’ goffi di fronte all’afflizione dei nostri fratelli e delle nostre sorelle, pensiamo di risolvere con le parole. In realtà c’è un’immagine che ci accompagna che è quella di Maria ai piedi della croce: noi la invochiamo come consolatrice degli afflitti. Sotto la croce lei non può fare nulla, non può strappare dalla croce quel Figlio che, sa, avere un cuore così grande, così buono da non riuscire neppure a pensare il male, ma lei c’è e Gesù lo sa.
Consolare gli afflitti è una declinazione dell’amore, di quell’amore di cui abbiamo parlato oggi.
Vi regalo allora un breve racconto sapendo che i racconti hanno spesso il limite di essere, a volte, un po’ poetici ma dicono o spiegano attraverso un’immagine cosa significhi quello che stiamo cercando di comprendere più a fondo.
Una bambina torna dalla casa di una vicina alla quale era appena morta, in modo tragico la figlioletta di otto anni.
"Perché sei andata?", le domanda il padre.
"Per consolare la mamma".
"E che potevi fare, tu così piccola, per consolarla?".
"Le sono salita in grembo e ho pianto con lei".
Consolare non è parlare, non necessariamente. Consolare è esserci. Se c’è allora qualcuno accanto a noi che soffre, soffriamo con lui; se c’è qualcuno che ride, ridiamo con lui perché amare è partecipare completamente con tutto noi stessi. L’amore, quello che Gesù ci ha rivelato, va contro tutte le regole della matematica perché è l’unico tesoro che si moltiplica se lo dividi, condividi e l’unico dono che aumenta quanto più te ne sottrai. L’amore sconvolge le regole dell’economia perché è l’unica impresa nella quale più si spende e più si guadagna.
Noi l’amore vero, quello che ci ha insegnato Gesù, possiamo regalarlo, possiamo spargilo ai quattro venti perché, anche se non è matematico, questo ci ritornerà come dice Gesù «cento volte tanto» e con quella eternità dove l’amore è l’unica cosa che resta.

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