3 luglio 2016 - VII domenica di Pentecoste

Abbiamo contemplato la figura di Abramo, padre nella fede, amico di Dio, colui che rimane fedele alla promessa e con il quale Dio compie quell’alleanza che trova compimento nella nascita del popolo d’Israele. Settimana scorsa abbiamo visto come l’alleanza con il popolo d’Israele sia un impegno così serio da stare di fronte al tradimento del suo popolo con quella misericordia che lo porterà a scegliere di donare il suo figlio perché la “nuova ed eterna alleanza” si compia nel sangue, nel sacrificio dell’unico Figlio, così che nessun uomo possa più ostacolare il progetto di Dio di comunione con il suo popolo, ma tutti coloro che si lasciano incontrare da Gesù, tutti coloro che partecipano al Suo Corpo e al Suo Sangue, possano diventare il nuovo popolo di Dio. 
Oggi, facendo memoria dell’assemblea di Sichem, che viene proclamata da Giosuè quando ormai comprende che è al termine del suo percorso, nella quale invita il popolo di Dio a rinnovare la sua adesione all’alleanza, troviamo un invito anche per noi. Anche a noi è chiesto di dire ogni giorno “vogliamo servire il Signore” dove questo servire significa ascoltare la sua parola e cercare di viverla. Essere servi del Signore non significa essere dei sudditi che devono obbedire ciecamente, ma coloro che vivono nella casa del Signore e hanno la possibilità nel servire lui di crescere nella profonda comunione con lui che li porterà ad essere protagonisti della loro vita in ogni ambito che verrà loro indicato e scopriranno che è loro bene essere in comunione del Signore, essere servi, anche perché questo essere servo è un titolo attribuito a Gesù Cristo, al Signore stesso. Essere servo come Gesù significa scegliere di essere in comunione profonda con Lui tanto da rivivere quello che lui stesso ha vissuto.
Questa nuova alleanza che ci è chiesta ha bisogno di alcuni segni molto concreti. Il primo lo troviamo descritto nella lettura che Paolo ci offre dove nella lettera ai Tessalonicesi, il primo scritto del nuovo testamento, Paolo dice al popolo di Tessalonica: «loro, in mezzo a molte prove, hanno scelto di abbandonare gli idoli». Sappiamo bene che idolo è contrapposto a Dio, tanto che il peccato più grande che troviamo nella Scrittura è proprio l’idolatria, cioè sostituire Dio con qualcuno, con qualche cosa, tanto che nel linguaggio attuale, idolo significa caricare una persona, una figura, una cosa di un bene così grande da farvi aderire il cuore e farlo diventare più importante di tutto. Idolo si sostituisce a Dio e diventa una deviazione dei propri affetti, dei propri impegni. Quando uno sceglie di seguire un idolo si ritrova a modificare il suo stile di vita in ordine al piacere a quella realtà. L’idolatria è quindi il grande peccato dal quale bisogna distaccarsi, possiamo dire così: non è possibile essere in comunione con Dio se coltivo nel mio cuore qualche forma di idolatria. 
Questa idolatria ha come radice tre aspetti della vita che riguardano più o meno tutti, anche se in maniera differente. Innanzitutto, pensare che la vita valga per quello che ho, per l’avere, per i beni che ho: l’accumulare tanti beni schemi fa sentire sicuro, come se potessi tenere lontana la morte dalla mia vita. Poi, il potere: avere potere su qualcuno, il far dipendere da noi qualcuno. Questo può accadere nelle famiglie, negli ambienti della comunità cristiana, nel lavoro, nelle dinamiche che si creano. Ogni volta che pensiamo alla vita come potere su qualcun altro, ogni volta che anche quando fossimo chiamati ad avere potere non lo viviamo come un servizio, come un regalo allora rischiamo di farlo diventare un idolo. Poco a poco questo cresce in noi, non è subito, immediato: c’è chi ha questa inclinazione, ma in realtà tutti un po’ siamo affascinati da questa realtà. Infine, quello forse più subdolo, è l’apparire. Siamo nella cultura dell’apparenza, dove ciò che conta è ciò che luccica, ciò che attira l’attenzione. Voi tutti mi testimoniate che la vita invece vede una quotidiana dedizione a delle realtà che non sono così evidenti, che non sono così luminose eppure fanno in modo che una famiglia si costruisca, che un luogo di lavoro diventi possibilità di vivere dignitosamente questo aspetto della vita, che le amicizie non siano banali, che il nostro modo di ritrovarci sia capace di dare valore a tutto, a ciò che è più quotidiano e a ciò che ci avvicina di più al Signore attraverso la Liturgia e la preghiera.
Allora, per poter vivere un’alleanza autentica dobbiamo lottare con qualche idolatria e ciascuno di noi deve individuare quell’idolo che si porta nel cuore, quello che porta via tempo ed energia al fatto di vivere la vita come un dono, come un servizio. 
La strada per poter vivere questo è sempre la stessa, non cambia. In realtà siamo noi che cambiamo di settimana in settimana, di anno in anno, e così il Signore ci propone ancora una volta solamente questo, di servire la sua parola, che è una parola dura. «Questo linguaggio è duro»: il riferimento è al fatto che Gesù dice che Lui è il Pane della vita e i discepoli dicono “come può lui darci la vita come cibo?”. Noi poi sappiamo quanto sia duro il Vangelo in alcuni passaggi, se lo prendiamo seriamente, se non lo prendiamo unicamente per quelle pagine che ci piacciono di più cassando quelle che piacciono di meno. Gesù ci invita ad amare i nostri nemici, a perdonare quelli che ci fanno del male. Anche in questi giorni, in cui le notizie che ci arrivano dal mondo ci parlano di una violenza grande anche nei confronti di persone del nostro popolo, sentiamo quanto questo ci pesa e quanto è duro mentre è più facile invece cadere nel giudizio, nella condanna, nell’avversione, in uno spirito di rivalsa e di vendetta. Il Vangelo è duro perché noi non scegliamo Gesù. Questa alleanza nuova ed eterna che celebriamo nell’Eucaristia è invito a scegliere Gesù. 

Mentre siamo vicini a tutti coloro che vivono nella sofferenza motivo della violenza, mentre chiediamo che quanti hanno perso la vita in questo modo siano accolte nel regno dei cieli, preghiamo perché il nostro cuore si lasci sempre più plasmare dal cuore di Cristo e anche noi siamo capaci di portare la parola di perdono, di misericordia perché noi, che non possiamo cambiare il cuore delle persone né la storia del mondo, possiamo cambiare il nostro cuore ed essere noi protagonisti ogni giorno di scelte che si allontanino da ogni forma di male e da ogni forma di idolatria. 

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