11 febbraio 2018 - Ultima dopo l'Epifania


Due uomini vanno al tempio a pregare: un’immagine consueta, come noi oggi. Uno sta di fronte a Dio ritto, in piedi, atteggiamento certo anche dell’orante ma prega come rivolto verso se stesso: «O Dio ti ringrazio perché io non sono come gli altri uomini, egoisti, ingiusti e impuri». Di per sé l’inizio di questa preghiera è giusto; se noi andiamo a rileggere i salmi troviamo tantissime parole di lode e di ringraziamento. Ma mentre con le parole si rivolge a Dio, in realtà quel fariseo è tutto incentrato su se stesso. C’è una parola che è al cuore della sua preghiera: io. Io ringrazio, io non sono, io digiuno, io parlo. Quest’uomo ha dimenticato che la parola più importante di tutta la vita è tu e questo vale anche nella preghiera, perchè Gesù ci ha insegnato che pregare è dare del tu a Dio, è chiamarlo con l’affetto di un bambino, “papà”. Quindi vivere e pregare hanno la stessa strada, alla ricerca sempre del bene dell’altro perchè ciò che il Signore vuole insegnarci costantemente, ed è il motivo per cui veniamo all’Eucaristia, è che solamente in una relazione fatta di accoglienza, di perdono, di desiderio del bene dell’altro noi possiamo costruire una vita sana. Il rischio che abbiamo anche noi nel cuore è di metterci di fronte al Signore dicendo “io non sono come gli altri” e così il mondo ci appare come un covo di ladri dove prevale la rapina, la dedizione al sesso, all’imbroglio e coltiviamo anche noi l’idea che tutti gli altri siano sbagliati. Il rischio è che noi ci troviamo ad essere separati tra quello che viviamo qui - che è bello, la preghiera, il canto - e quello che viviamo fuori di qui dove possiamo diventare giudici durissimi degli errori degli altri. Questa strada porta il nostro cuore ad essere indurito, ad essere arido. Il rischio è quello di essere di fronte al Signore ma di non conoscerlo veramente, di essere uomini che non ricordano che Gesù è venuto per creare una comunione tra noi e Lui, tra noi e ogni uomo. Sbagliarsi su Dio è l’esperienza peggiore che possiamo fare perchè poi quando sbagliamo ad avere uno sguardo su Dio, sbagliamo ad avere uno sguardo su noi stessi, sull’uomo, sul mondo intero.
Il pubblicano, invece, ci rappresenta in quella realtà così complessa che è l’umanità dell’uomo segnata da tante contraddizioni. Lo vediamo in fondo al tempio, piegato, quasi incapace di alzare lo sguardo. È lui che ci insegna a non sbagliare lo sguardo su Dio. Si ferma a distanza, si batte il petto e dice quelle parole che possono diventare la nostra preghiera quotidiana «O Dio, abbi pietà di me peccatore» come facciamo all’inizio di ogni eucaristia quando diciamo Kyrie Eleison - Signore, abbi pietà -, dove questo atteggiamento non è quello del suddito sotto un dio, un re cattivo ma è di chi riconosce che, pur cercando in ogni modo di corrispondere alla volontà di Dio, si ritrova spesso ad essere limitato dalla propria fragilità e dalla propria contraddizione. Ciò che rende la preghiera del pubblicano autentica è che lui guarda verso Dio e dice “Tu, abbi pietà di me peccatore”: crea una relazione. Mentre da una parte il fariseo costruisce la sua religione attorno a quello che egli fa per Dio - Io prego, io pago le decime, io digiuno -, il pubblicano ha costruito attorno a quello che Dio fa per lui la sua vita e così si crea una comunione, un contatto. È possibile allora per quell’uomo essere giustificato, cioè imparare piano piano come si può essere in comunione con Dio. Ma quando Dio è fuori dalla mia vita io rischio di fare comunione solo con me stesso. Oggi il Signore ci ricorda che noi siamo i suoi figli perdonati, che tutti abbiamo bisogno del perdono, che non c’è nessuno tra noi così giusto da poter puntare il dito contro un altro e scorticarlo; troveremo sempre qualcuno che ha sbagliato più di noi ma questo non significa arrogarci il diritto di diventare giudici. Certo noi siamo chiamati a vedere il male e a combatterlo, iniziando però da quello che c’è dentro di noi perché solo così saremo capaci di essere giusti nei giudizi e cercheremo di aiutare chi sbaglia a non sbagliare più.
Che il Signore ci doni la gioia di entrare in relazione autentica con Lui, che la nostra preghiera sia sempre riconoscere la sua grandezza non perchè ci schiaccia ma perchè ci rialza; il suo amore perché è capace di dare se stesso fino al dono della vita. Allora potremo, nonostante le contraddizione e le fragilità della nostra esistenza, stare di fronte al Signore con la consapevolezza che il suo amore per noi non smetterà mai, che non smetterà mai di perdonarci, che non smetterà mai di rialzarci, che noi non possiamo in realtà meritare l’amore di Dio ma lo possiamo accogliere e, nella misura in cui scegliamo la strada dell’umiltà, allora questo sarà più possibile.
Chiediamo umilmente a Dio, mentre guardiamo la quaresima che sta per iniziare, di avere a cuore che la conversione non sia uno stravolgimento della nostra vita ma sia un costante sguardo del suo amore che perdona. Allora, sono certo, vivremo anche esperienze nuove di comunione tra di noi, di fraternità, di accoglienza, di stima reciproca, di benevolenza. Solo in questo modo possiamo pensare a un’umanità rinnovata. Che il Signore ci aiuti a scegliere così, a partire dalla preghiera che insieme facciamo qui oggi, a partire dalla preghiera che da oggi in poi rivolgeremo al Padre. 

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