29 aprile 2018 - V dopo Pasqua


Nel Vangelo non troviamo tante preghiera attribuite a Gesù, ma costantemente ci viene indicato come Gesù pregava: alla sera tardi, nel cuore della notte, al mattino presto, per cercare un’intimità e una solitudine con il Padre. La preghiera nasce dal cuore. In un momento di grande tensione, quando sente che il tradimento è compiuto, quando vede i suoi amici smarriti quella notte, vigilia della sua Passione, Gesù compie il gesto della preghiera e la offre a tutti noi.
Proviamo a entrare in questo dialogo intimo tra Gesù e il Padre, cercando di cogliere quello che può dire a noi e al nostro modo di pregare. Innanzitutto, Gesù alza gli occhi al cielo: questo alzare gli occhi che non è uguale a quello di chi a un certo punto, sbuffando alza gli occhi  e pensa “fai qualcosa tu perchè qui non cambia nulla” ma è l’atteggiamento di chi orienta il cuore verso la propria origine e dice “io sono in un profondo legame con te. Tu sei colui che guida i miei pensieri, le mie parole, i miei desideri”. Alzare gli occhi verso il cielo è un atteggiamento che ritroviamo costante nella vita di Gesù; l’aveva imparato ascoltando i salmi «Alzo gli occhi verso i monti: da dove mi verrà l’aiuto?». E poi così, prima del miracolo, prima della risurrezione di Lazzaro, prima di consegnare a noi la sua vita nel pane che diventa il Suo Corpo e nel vino che diventa il Suo Sangue. Alzare gli occhi al cielo come a cercare di creare un’intimità con il Padre attraverso anche il proprio corpo. Al Padre, poi, rivolge quella preghiera che nasce dal comprendere che ormai il cammino verso il momento fondamentale della sua vita è compiuto: «Padre, è giunta l’ora», non ci si può più tirare indietro, Gesù ha bisogno che il Padre gli dia la forza di accogliere quello che sta per accadere. C’è un momento durante l’Eucaristia nel quale siamo invitati a fare una sorta di scatto: dopo aver chiesto il perdono, dopo aver ascoltato la parola, dopo aver accolto il fratello nello scambio della pace, dopo aver offerto la semplicità della propria vita e aver ridetto la propria fede, il sacerdote ci invita ad innalzare i nostri cuori - in alto i nostri cuori - e noi tutti dovremmo dire con convinzione “Sono rivolti al Signore!”. In quel momento dovremmo sentire come la nostra presenza qui è perchè vogliamo riconoscere che l’abbraccio del Padre è il fondamento della nostra vita di fede, che in Gesù abbiamo scoperto il volto di un Padre che ci accoglie e vogliamo anche noi creare un rapporto di intimità con lui, vogliamo che non sia estraneo alla nostra vita, che non sia lontano e l’unica via è quella di imitare Gesù che orienta il cuore verso il Padre. La preghiera allora diventa un’esigenza, un bisogno, un’urgenza della nostra esistenza perchè come Gesù ha imparato a conoscere il volto del Padre, ha imparato a riconoscere la sua esperienza di figlio come segno per tutti della possibilità di conoscere Dio, così anche noi possiamo attraverso la preghiera riscoprire di giorno in giorno come l’essere rivolti al Padre, questa intimità che creiamo con lui, è ciò che rende forte la nostra vita e ci apre a credere che la vita eterna non è un luogo, non è un ambiente (e per quanto proviamo a immaginarcelo non ci riusciamo) ma è un’esperienza, assomiglia più a un abbraccio, al sentirci parte di una realtà che ci avvolge, ci sostiene e ci conduce. Vorremmo sentire che l’eternità è sperimentare in Gesù Cristo la presenza di Dio. Questo lo possiamo fare tutti, perchè dal giorno del nostro Battesimo abbiamo ricevuto - come dice Paolo - lo Spirito di Dio per conoscere ciò che Dio ci ha donato. Solamente in questo Spirito possiamo avere la forza di Stefano, nello stare di fronte a tutti con il coraggio di raccontare la storia della salvezza come la propria storia, con il desiderio di far guardare alla realtà che ci circonda con gli occhi di Dio, di guardare all’esistenza come a un progetto nel quale Dio non è estraneo ma che, anzi, continua a custodire. Sia questa la preghiera che rivolgiamo al Padre. Alzando gli occhi verso di lui, orientando a lui il nostro cuore, nel desiderio di sentire quell’abbraccio che è forza per affrontare ogni cosa, ogni esperienza, lieta o triste, e soprattutto la nostra vocazione ad essere figli che sanno raccontare l’opera di Dio nella nostra storia, nella storia dell’umanità.

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